Tradizione e identità: simboli della vasquidad nel cinema basco

Tradition and identity: symbols of vasquidad in Basque cinema

Cet article vise à montrer comment certains éléments de la tradition basque, inclus dans de nombreux films ces dernières années, ont effet de symboles rappelant des genres cinématographiques bien codifiés. Le cinéma basque qui, depuis qu'il a été définit en tant que tel, est en quête d'un caractère spécifique et autonome, s'est défini dans ses dernières productions, en ayant recours à un imaginaire commun qui se réfère aux racines et à la mythographie de ses origines, bien que dans un contexte narratif nouveau.

Tradition. Basquitude. Cinéma. Rituel. Mythe

1. ‘Lo vasco’ e il cinema. Per una introduzione alla questione

Premessa

Lo studio è nato dalla necessità di comprendere la ragione per cui progressivamente il cinema prodotto in Euskadi si caratterizzi come fortemente legato alla peculiarità locale, non solo nell’uso della lingua, ma anche nell’utilizzo sempre più frequente di elementi e riferimenti che, al di là degli stereotipi utilizzati nella commedia, riportino ad una percezione di ‘vasquidad’. Il quesito centrale è se il cinema basco possa contribuire alla costruzione di una narrazione locale, in un’ottica mitopoietica già emersa nella letteratura. A tale scopo si è ripercorsa la storia del cinema basco dal momento in cui è stato riconosciuto come tale dal punto di vista teorico, considerando le implicazioni politiche ma anche le principali questioni relative alla ricerca di costanti estetiche in grado di garantire la ‘vasquidad’ del prodotto cinematografico. Constatando inoltre la sempre maggiore presenza di riferimenti alle tradizioni popolari, soprattutto nei film prodotti a partire dal 2015, si è avvertita la necessità di ricerca delle fonti, utilizzando il vasto repertorio documentario etno-antropologico conservato negli archivi di Euskadi. La conseguenza di questo tipo di ricerca porta innegabilmente vantaggi sia per il pubblico, sia per il prodotto cinematografico: da una parte infatti si agevola la comprensione di quanto possa risultare poco noto al pubblico estero, anche tramite la pubblicazione di materiali d’archivio, dall’altra si contribuisce a veicolare la conoscenza di realtà nazionali in uno scambio culturale necessario e imprescindibile, soprattutto in virtù del fatto che la distribuzione dei prodotti cinematografici e seriali avviene principalmente su piattaforma, nell’ambito di un mercato quanto più possibile internazionale.

1.1. All’inizio: una questione tra politica e ideologia

Parlare di cinema basco porta inevitabilmente con sé la questione se si tratti di qualcosa di diverso dal cinema spagnolo. Molti, al di fuori della Spagna o meglio dei Paesi Baschi, ignorano l’esistenza di un cinema basco che possa avere caratteristiche autonome o lo ritengono un fenomeno di nicchia investigato da pochi e non di particolare interesse. In Italia la diffusione e la conoscenza del cinema basco da parte del pubblico è legata a pochi registi quali Alex de la Iglesia e Julio Medem e la visione dei loro film non riconduce a un cinema che possa contenere elementi peculiari di regioni o paesi diversi da ciò che è percepito come ‘spagnolo’, in Spagna la percezione di una autonomia estetica basca rispetto a quanto prodotto nel resto della penisola è diffusa e si è consolidata nellultimo decennio.

La certezza di una identità del cinema basco nasce nel febbraio 1976 con le ‘Giornate del cinema basco’; le questioni poste durante le discussioni di queste giornate sono sia di natura linguistica che di natura estetica e indissolubilmente legate alla politica. L’autodeterminazione del popolo basco e il progetto politico di indipendenza trovano un appoggio significativo in un progetto culturale di ampia diffusione che tenga conto del cinema come mezzo di comunicazione immediato, prima ancora del riconoscimento o meglio, come si vedrà in seguito, della ‘costruzione’ di una letteratura. Indifferentemente dal fatto che la definizione di cinema basco riguardi qualcosa prodotto in territorio basco o qualcosa in lingua basca, la ‘vasquidad’ è riconoscibile come elemento fondante di un carattere culturale.

Progressivamente si è assistito alla formazione di una consapevolezza culturale cinematografica basca e alla sua evoluzione, fino agli ultimi dieci anni, particolarmente fertili, come si vedrà in seguito, per un cinema che recupera la ‘vasquidad’ ma si allontana dai vincoli politici ed estetici delle origini.

La naturale reazione al nazionalismo franchista trova nelle vicende del País Vasco una possibilità per realizzare, oltre che il progetto politico autonomista, un progetto culturale ampio e coordinato che, all’occhio dell’osservatore non basco, appare uno dei progetti culturali più definiti nel senso di una fondazione storica, quasi mitologica, dello spirito del paese.

Un legittimo dubbio è indotto dalla constatazione dell’esistenza di un intento politico così forte da prevalere sul dato estetico: ciononostante si vedrà come la ricerca estetica del cinema basco non sia, in tutta la sua evoluzione sino ad oggi, un elemento secondario. Anzi, nel corso del tempo essa è divenuta caratteristica primaria e, quasi sempre, inscindibile rispetto ad uno spirito politico della narrazione: i due elementi si fondono e, come si vedrà, l’uno influenza l’altro in una progressiva combinazione tale da rendere difficilmente intuibile il confine.

Tuttavia se ad oggi uno degli studiosi che sin dall’inizio ha determinato le sorti del cinema basco, Santos Zunzunegui, dichiara, in una intervista del 2018[1], che la dimensione etica del cinema basco è scomparsa rispetto alla dimensione estetica, ciò suscita dubbi ragionevoli sull’evoluzione della questione politica nell’ambito della narrazione cinematografica basca e soprattutto sul ruolo che i ‘padri fondatori’ della teoria del cinema basco ricoprono in relazione agli eventi storici che lo hanno affiancato e condizionato. Il dato di fatto più significativo è però che si riconosca un’estetica del cinema basco e, come conseguenza dell’esistenza di essa, che questa possa essere anche riconosciuta da chi non appartiene alla comunità basca. Se difficilmente si può riconoscere il dato singolo di un mito locale, si può però intuirne un tratto specifico e riconoscerne l’esistenza in diverse condizioni e situazioni.

La cosa significativa è che si esca dall’iconografia del luogo comune e dallo stereotipo rappresentativo che facilita sceneggiatore e spettatore: lo studio di sceneggiatura talora, nelle ultime produzioni, è così attento ad una ricostruzione filologica delle fonti e del linguaggio, che supera i dettami del genere a cui appartiene. Emblematico è il caso dei film Errementari (2017) e Irati (2022) di Paul Urkijo Alijo, giovane regista basco. I film prendono spunto da leggende basche; la ricostruzione dell’ambiente del villaggio ottocentesco nel primo, dei tratti narrativi delle leggende e soprattutto l’intenso e accurato lavoro linguistico realizzato in collaborazione con linguisti della UPV, segna abilmente il punto di confluenza tra la necessità di narrazione locale e le necessità del genere filmico. Prodotto da Alex de la Iglesia, che già con Las brujas de Zugarramurdi (2013) aveva percorso parzialmente quel tipo di genere filmico, i film segnalano una volontà distributiva internazionale significativa, cosa che si è vista perfezionata con l’uscita di prodotti quali ‘Akelarre’[2] di Pablo Agüero (2020), o con la serie HBO ‘Patria’, tratta dal successo letterario di Aramburu e tradotto per la serie da Aitor Gabilondo. Rendere dunque riconoscibile allo spettatore generico e soprattutto al mercato internazionale un prodotto che parte da una leggenda locale tradizionale pressoché sconosciuta al di fuori della regione di appartenenza vuole dire cercare una modalità per esportare l’immagine di un luogo rendendola efficace anche dal punto di vista economico. La stessa cosa accade con la ormai celeberrima trilogia del Baztán, e i film tratti dagli stessi libri della Redondo, che hanno contribuito non solo ad un incremento della frequenza turistica legata al momento e all’occasione letteraria – compito minimo di attività legate alle campagne di diffusione e distribuzione o a quelle delle Film Commission –, ma anche alla divulgazione, al di fuori del País Vasco e Navarra, della tradizione e dei racconti di magia e stregoneria raccolti e ampiamente documentati dal lavoro di Barandiarán nel corso del ‘900.

Di fatto l’operazione narrativa, e poi quella mitografica, a questa condizione divengono condizioni essenziali per affermare l’identità, così come avviene per ogni comunità, ma più ancora, e in misura più forte, per l’identità basca, così come dimostrato negli scritti di Jon Juaristi, da ‘El linaje de Aitor’, fino alla formulazione di quel nazionalismo etnico di cui narra la storia in ‘Sacra Nemesis’ (Juaristi, 1987 e 1999).

Dalla formulazione di una visione identitaria e di una mitografia del popolo basco, che non si può certamente far risalire solo al periodo di attività dell’ ETA ma che accompagna il processo di coscienza basca sin dalle origini, che potrebbero essere individuate, nel loro intento mitografico, nel momento in cui furono scritti, nel 1802, (ma pubblicati nel 1881) i dialoghi del Peru Abarka di Jose Antonio Mogel[3], nasce un linguaggio della ‘vasquidad’, che l’euskalduna può facilmente comprendere e in cui si identifica , o forse realizza, ma che può essere facilmente incompreso una volta esportato.

1.2. Un progetto tra etica ed estetica

L’accademico Santos Zunzunegui, che può essere annoverato tra i primi fondatori teorici del cinema basco, pone un problema fondamentale, che ancora è vigente nel dibattito sul cinema basco: ¿Es lo nacional una cualidad estética? (Fernandez, 2015:21-32) Secondo Zunzunegui, nel discorso introduttivo al convegno sul cinema basco proposto dalla Filmoteca Vasca nel 2015 (Fernandez:2015), la ragione per cui si parla di tre generazioni di cineasti è dovuta a tre motivi fondamentali: il primo è l’aver creato, intorno al concetto di cinema basco, una interminabile serie di scritti, convegni, dibattiti e incontri; il secondo è di aver creato, intorno a questo tema, molti enti e istituzioni pronte a conservare e sostenere le nuove produzioni; il terzo, più complesso e forse il più importante, è quello ‘en que apunta hacia la existencia de una serie de obras de arte en las que podríamos reconocer la recurrencia de una serie de estilemas que autorizara a hablar de la existencia de un hilo conductor que permita hablar, en términos retrospectivos, de la conciencia de formar parte de una tradición cinematográfica’(Fernandez,2015:28), un filo conduttore che lo studioso bilbaino vede negli ultimi trenta anni, ma che vuole considerare, come si è detto poco prima, in termini prevalentemente estetici. E su cui stiamo ancora riflettendo, soprattutto in considerazione dell’ultima generazione di registi baschi, che potremmo considerare la quarta.

1.2.1. Dalle ‘Jornadas del ’76’ agli ultimi convegni

Dopo le giornate del cine vasco del febbraio 1976, l’uscita del film di Uribe El proceso de Burgos segna l’inizio di una nuova era per le produzioni locali: senza dubbio il grande successo apre le porte ad una riflessione consapevole sulla necessità di garantire una sicurezza nell’ambito della filiera produttiva: dall’ideazione alla distribuzione il film basco deve essere sostenuto, in virtù, anche, di una reazione all’oscurità in cui era stato relegato in epoca franchista. Si tratta ovviamente di un cinema politico, a scopo politico, e la sicurezza perseguita è quella di avere una attenzione preferenziale, in fase produttiva, in quanto prodotto culturale locale e latore di un messaggio di acquisita libertà. Come sottolinea Roldán Larreta (2008:425-440)

‘De nuevo el pueblo vasco luchaba por sacudirse el peso de la bota militar del régimen y surgían propuestas de todo tipo, tanto en el campo de la política como de la creación artística, que anhelaban mostrar con entera libertad el canto de un pueblo en su lucha por la libertad. Y el cine, claro está, no se mantuvo ajeno a este afán.’

Nel 1981 inizia la politica di aiuti al cinema e il giovane Imanol Uribe realizza il film documentario ‘La fuga de Segovia’, con cui ottiene uno straordinario successo ma, cosa ancora più significativa, è il film con cui ottiene un cospicuo finanziamento dal Gobierno vasco. Il sistema di finanziamento alle produzioni cinematografiche avrebbe potuto essere un’occasione per dedicarsi alla costruzione di una cultura politica basca che potesse lasciare in secondo piano la lotta armata, puntando ad una diffusione dell’ideologia ben più capillare e pertanto più intensa e con maggiori risultati. Tuttavia, il produttore Ángel Amico, pur intravedendo la logica del potere centrale, non riconobbe un intento di sostegno per il sorgere di una nuova industria cinematografica, ma semplicemente un metodo per distrarre dalla lotta armata, cosi come affermò in una intervista rilasciata circa dieci anni dopo l’uscita del film (Roldan Larreta, 2008):

“Las ayudas primeras que dio el Gobierno Vasco no obedecían a una política cinematográfica. Obedecían a casi un plan de reinserción, fíjate lo que te digo. A mí me dieron el dinero para La fuga de Segovia y esta película en el fondo, lo han comentado privadamente, como una ayuda para que nos dedicáramos a hacer películas en vez de pegar tiros, así de simple vamos. Yo entiendo además que yo no despertara especial interés cinematográfico en ningún gobierno, ni en nadie. Yo no era nadie en ese terreno para que me dieran ayudas de ese tipo a mí y a toda la gente que estábamos trabajando entonces. Si alguien quiere buscar lógica cinematográfica o política que se olvide. Luego sí tuvieron que aplicar cierta lógica. Pero al principio no.”

Lo stesso Amigo dichiarò, in una intervista su Egin del 1981[4], che il suo lavoro era il primo film davvero significativo nel contesto del nuovo Estatuto[5] e che dava l’avvio ad una politica di aiuti prevedibilmente in costante ascesa.

Del resto l’intento programmatico del periodico Egin[6] era chiaro nel proporre un complesso progetto educativo culturale:

Azkenaldi honetan ematen ari garen artikuluetan, euskal kulturaren egungo egoera ikuspegi desberdinetatik aztertu da. Gure kulturaren egoera aski pobrea da, ez behintzat, nahiko genukeen bezain optimista. kantuaz, arte plásticos eta literaturari buruz idatzi direnetan aski nabarmen geratu da, maila altu zamarra ailegatzeko badugula oraindik egitekorik asko. Azotan goiti jotzen dugu, hau eta beste dugula uste izanez, baina obeko genuke zertan garen, zer egorea larrian gauden ikusi, besterik gabe maila altuagoetara abiatzeko. Euskararen ikaskuntzaz, musikaz, pedagogiaz eta bestez artikulu gehiago ondoko egunetan.[7]

Sul numero di Egin del 22 ottobre 1978[8] intervenne Antxon Eceiza, riflettendo sul fatto che, ogni volta che si chiedeva ai cineasti baschi un’opera basca da destinare a proiezioni in cineclub e festival, questa dovesse essere in parte disattesa, dal momento che si sarebbe fornita sempre la solita mezza dozzina di film. Il tono polemico di Eceiza concerne soprattutto l’eccessiva esposizione teorica del tema, ma una mancata pratica produttiva:

‘Sin embargo, se escriben artículos, se dan conferencias, se realizan coloquios sobre este ente que no existe. Hasta tenemos una Asociación de Cineastas Vascos con sus querellas internas y todo. El problema de base de toda actividad teórico-critica, en la que yo también participo, es que no conseguimos sobrepasar el nivel de lo declarativo, de lo programático, de las definiciones del “debe ser” en los mejores casos, o del “debería ser” en los más numerosos.’

L’intento di Eceiza è quello di ragionare sulle infrastrutture necessarie alla creazione di un sistema organico di produzione che non dipenda dallo stato centrale, legato al modello capitalista, ma che possa garantire autonomia. Secondo quanto egli stesso afferma in un intervento sulla rivista Festival[9], facendo riferimento all’incontro fra i direttori delle scuole di cinema tenutosi l’anno precedente, e il cui tema era ‘El cine como instrumento de defensa de las culturas nacionales’, l’intento politico deve rimanere centrale, e ‘la sintesis entre VANGUARDIA y TRADICIÓN es la más efectiva en la lucha por rescatar, afirmar o defender una identidad nacional.’

La conservazione e rivalutazione della tradizione è un punto nodale, ma è interessante il fatto che si senta l’esigenza di appropriarsi del concetto di ‘avanguardia’ nella tradizione. Nella dimensione e volontà rivoluzionaria sarà preso come modello tutto quanto, in Europa, già è simbolo di rottura con un passato conservatore: basti pensare che l’opera, l’attività intellettuale e il cinema di Pasolini, a questo scopo, furono ampiamente riconosciuti come un modello politico, ideologico e estetico per i cineasti baschi degli anni ’70 (Populin, 2022:247-269).

Il richiamo alla tradizione, naturalmente, non è inteso come un ritorno indietro nostalgico, ma un ricordo di un’età aurea di un mitico passato, nell’ambito del ‘topos ruralista’, per dirla con Juaristi (1987:135) e in funzione di una rielaborazione a scopi politici, come accadde negli anni ‘70.

In questo periodo, che va dal ’68 ai primi anni ’80, ciò che vistosamente emerge è la volontà di affermare l’indipendenza utilizzando un nuovo codice culturale, nuovo rispetto allo stato di Spagna, dal lato opposto rispetto al franchismo, ma che rappresenti Euskadi, nel senso di una ricostruzione culturale tipica delle comunità immaginate, ma nel contempo più radicata, più naturale e più efficace. Il cinema può contribuire alla generazione della nuova era in quanto non solo in grado di restituire e consolidarne l’immagine, ma, affermandosi come sistema, ne crea il sostrato industriale e contribuisce a quello economico con la stabilizzazione delle infrastrutture.

Gure herri eta euskal kulturaren egoera ikusirik, garbi ikusten da euskal zinemaren beharra, balio izango bait du gure kultura eta berjabetasunezko alor garaiagoak berriro gurenganatzeko, eta gero eta gehiago gure izakeratan ohinarrituriko gizar eta politiko erakunde bat, herri bezala ditugun eskubide istorikoak lortu ditzagun.[10]

La percezione dell’appartenenza, il riconoscersi parte della comunità e la condivisione dei valori antifranchisti continuano a fare da sfondo al periodo culturale successivo al ’75, anni in cui il franchismo era ancora vivo e radicato, nonostante la scomparsa di Franco e il passaggio del potere. In quest’ottica è interessante valutare la percezione del pubblico, basco e no, all’uscita di uno dei più importanti romanzi sulla lotta armata: Ehun metro di Ramon Saizarbitoria. Scritto nel 1972, l’opera fu pubblicata nel 1976 e immediatamente ritirata, unitamente alla denuncia nei confronti dell’autore. Di fatto, l’opera diviene il simbolo della resistenza al potere ancora vivo del franchismo e, come sottolinea Kortazar, appare come una apologia della lotta armata (Kortazar, 2016:7-8).

Dato evidente è che violenza narrata e rappresentata accomuna cinema e letteratura. Un romanzo come quello dell’ex capo etarra Mikel Antza (Antza,2019), in cui non è soltanto evidente una differenza di prospettive, quanto anche la necessità di rappresentare in modo diverso il solco nella manichea distinzione tra ‘buono’ e ‘cattivo’, segna una utilizzo della rappresentazione violenta che appartiene sempre di più alle necessità narrative di romanzi, film e serie, costituendo sempre di più uno carattere peculiare di questo tipo di narrazione.

Il pubblico estraneo alle vicende, il pubblico internazionale, di certo percepisce una narrazione violenta, e la individua come costante estetica del momento: si passa da una visione ruralista e ‘selvaggia’ del País Vasco, in cui l’osservatore estero vede un popolo che vive in un contesto arcaico più vicino all’età dell’oro che alla contemporaneità, ad un momento in cui il film di finzione si sovrappone o si affianca al documentario e la percezione del pubblico è quella di essere testimone attivo della vicenda storica nel momento in cui essa si genera. In pochi decenni sembra che si assista non solo ad un salto temporale, ma anche ad un mutamento della percezione da parte dell’osservatore: questi infatti esce dalla visione dei quadri di un’esposizione a cui lo aveva costretto il costumbrismo di molta produzione basca precedente per evocare ogni volta la sofferenza della repressione e attuare una prassi della violenza nella sua rappresentazione; conseguentemente a questo atto, la violenza aumenta di grado, una volta che è sia rappresentata che vissuta, se pur con l’immaginazione. Secondo una interessante teoria di Marsha Kinder (Kinder, 1993) la rappresentazione della violenza nel cinema spagnolo è condizionata dalla relazione tra il sacrificio originario e il massacro moderno: il cinema postfranchista, mostrando molto spesso scene di violenza anche estrema, si allinea così al cinema franchista della cruzada, individuando il sacrificio dell’eroe come peculiarità narrativa.

Come teorizza Virginia Higginbotham si trattò in questo caso di una vera e propria ‘Estetica della repressione’(Higginbotham, 1988), che accompagnò il cinema in una nuova era: la trasformazione verso un cinema della modernità.

La questione principale, a questo punto, è la ‘modernità e la trasformazione del cinema in quello che deve essere un cinema basco a tutti gli effetti e con certe regole.

Se si prende come riferimento di confronto l’opera di Zunzunegui (Zunzunegui, 1985), che fu la prima, nel 1986, a definire una storia del cinema basco in vista di un progetto di sistematizzazione dell’industria cinematografica autoctona, non si può non considerare l’evoluzione del cinema basco in graduale ma costante cammino verso una produzione sempre più internazionale. Del resto anche Zunzunegui ravvisò in quel momento la necessità di uscire dal concetto di cinema locale, allora legato al concetto di ‘periferico’, se non altro per rimediare all’impossibilità di coprire, con i ricavi provenienti solo da Euskadi, i costi di produzione dei lungometraggi (Zunzunegui, 1985). Se Zunzunegui insiste ora nel respingere l’istanza politica del cinema basco, egli non prescinde dalla valutazione della questione, così come emerge dal suo intervento introduttivo al convegno Cine Vasco: tres generaciones de cineastas, celebrato nel 2015. Il cine vasco esiste in quanto espressione della ‘comunità immaginata’ di Euskadi e, proprio in virtù di tale processo, gli indicatori di identità sono più forti. Da qui naturalmente in ogni racconto cinematografico si ripetono stilemi imprescindibili, doverosamente utilizzati dallo scrittore e attesi dal pubblico; e non solo sono stilemi di scrittura che riguardano la sceneggiatura, ma sono quegli elementi che denotano l’immagine e connotano l’insieme nelle relazioni della percezione visiva filmica. Lo spettatore pertanto si attende certi elementi che sono divenuti caratteristici del cinema basco? Se Stone- Rodriguez (2015) valutano l’esistenza e la persistenza di tali elementi, e considerato il ripetersi sempre più assiduo di tali aspetti formali, è ora di valutare se proprio in questi ultimi anni il cinema basco ha realizzato, ma con molta più consapevolezza che prima, la sua vasquitad, e se l’ultima generazione di cineasti, quella individuata in questo studio come la quarta generazione, non sia quella che concretizza e definisce il nuovo stile.

1.2.2. E la lingua basca, l’‘‘euskera’’

É interessante valutare il reciproco scambio tra il cinema e la storia: in questo momento della storia basca il cinema è uno dei veicoli fondamentali per la diffusione della cultura basca, e pertanto centrale ai fini della costruzione di un canone identitario a cui fare riferimento. Già la letteratura aveva costituito un nuovo modello in cui coesistessero forme antiche e novità tematiche e stilistiche riferite a quell’ideologia tesa a creare e consolidare la ‘vasquidad’. La necessità di consolidamento fa sì che l’’euskera’, lingua di Euskadi, venga progressivamente uniformata in una unica lingua, l’’euskera’ batua, comprensibile a tutti e quindi applicabile a contesti diversi, più o meno; il cinema è un veicolo di trasmissione immediato, proponibile in diverse situazioni. Già il Zinemaldia del ’77 ebbe una svolta importante con il focus sul cinema basco nella sezione ‘otro cine’, che in quell’anno vide la proiezione del film di Sistiaga ...ere erera baleibu izic subua aruaren...(1970), il corto del giovane Iñaki Núñez Boltxebikeak Irriparrez (Los Bolcheviques ríen) (1977), e con la diffusione del cinema nelle periferie, nei pueblos, che rappresentò il primo tentativo effettivo di rinnovamento del festival. Dei due film in ‘euskera’ proposti, il primo era una pellicola sperimentale che riassumeva, nal trattare de rerum natura, gli intenti dell’arte di Sistiaga, il secondo affrontava la questione politica del momento; entrambe convergono nell’attirare l’attenzione del pubblico verso una forma di narrazione artistica profondamente diversa dalla proposta consueta del Festival di San Sebastián. Inoltre la diffusione del cinema al di fuori della sede ufficiale del festival è il primo passo verso una profonda trasformazione del festival allo scopo di un maggior coinvolgimento locale e consapevolezza delle possibilità politiche del cinema[11].

Nel ’77 si è già nel pieno del dibattito sul cine in ‘euskera’: Ama Lur (1968) è il primo passo verso la fondazione vera e propria di un cinema che ricerchi un canone, in un contesto storico in cui la consapevolezza politica di una patria unita e indipendente inizia a configurarsi in modo definitivo. Come emerge anche dai quadri sintetici della storia del cinema basco di Joxean Fernandez (Fernandez, 2009 e 2013), nel periodo posteriore al ’68, e in particolare dopo le Jornadas del ’76, si parlò molto di cinema basco, ma non se ne realizzò molto. Il problema fondamentale fu la mancanza di una vera e propria industria del cinema che, differentemente da quanto avvenne con la letteratura, si trovò ad affrontare una questione tutta nuova, formale, ideologica e materiale.

Tuttavia Ama Lur è un film chiave ‘attempting to establish a cinematographic language rooted in the Basque cultural tradition[12].’ Ama Lur è un atto politico.

Ama Lur-Tierra Madre

Nestor BASTERRETXEA, Fernando LARRUQUERT, 1968, 103 min., Films Irun

Ama Lur, come è noto, fu un progetto collettivo, sovvenzionato dagli ideatori e da sostenitori: inizialmente, nel 1966, la richiesta non fu accolta da tutti coloro che erano stati interpellati e si rese necessario fondare una società per azioni per produzione e distribuzione del film: la Distribuidora Cinematográfica Ama Lur S.A., che propose una vendita di azioni di 100 pesetas l’una. Il film raggiunse e, anzi, superò la quota del preventivo iniziale durante la lavorazione del film, nel novembre del 1966, per l’intervento di un cospicuo numero di sottoscrittori che si aggiunsero ai tre finanziatori iniziali: José Luis Echegaray, Castor Uriarte e Iñaki Hendaya[13].

Nel 1968, archiviati tutti i procedimenti di censura, si concluse definitivamente la postproduzione del film che uscì poi nel luglio del 1969.

Nel recensire il film, José Maria Aguirre ne sottolinea l’eccessivo ‘romanticismo’, ma riconosce che in quel momento è tutto necessario, e che era necessario vederlo in 70 mm., con un occhio antropologico, storico, geografico[14].

Basterretxea, in una intervista su Egin del 1978 si espresse così: “Ama Lur fue fruto de un determinado momento político. El hecho de que abunden los elementos positivos, incluso de que pueda reflejar un cierto triunfalismo, nos pareció adecuado al momento en que vivíamos, fue un espaldarazo, una afirmación de vasquismo ante un régimen de fuerza.[15]

In linea con il pensiero di Jorge Oteiza, il film costruisce, e non ripropone, l’immagine del País Vasco, accostando personaggi, persone, luoghi, in una narrazione che intende essere la più completa possibile evitando però la dimensione del documentario. A questo scopo si adottò una forma di montaggio che potrebbe apparire come un insieme di libere associazioni ma, come affermato in molte interviste successive da Larruquert, si tratta di un modello costruito secondo le Kopla Zaharrak[16], con intuizioni e immagini che apparentemente sono accostate liberamente ma il cui nesso logico si trova nell’assonanza o nel riferimento concettuale dell’immagine precedente. Tale tipo di montaggio costruisce in effetti un nuovo linguaggio, particolarmente evocativo della tecnica poetica legata all’improvvisazione: questo non può che essere riconosciuto come peculiare tra i caratteri del linguaggio vasco. Del resto, non potendo ricorrere, anche per motivi censori, all’’euskera’ come lingua del film, il ricorso ad una forma di linguaggio comune e legato alla tradizione non può che raggiungere un massimo grado di funzionalità. Se poi prendiamo in considerazione le scene del film, una delle due in cui è usato l’’euskera’ è un dialogo tra i due celebri bertsolaris[17] Muniategi e Xalbador; l’altra è un intervento di Oteiza sull’estetica basca del momento. Due scene in cui è indubbia la matrice assolutamente e innegabilmente basca: dalla tradizione rurale all’espressione artistica più sublimata il cammino di una estetica basca prosegue accanto alla lingua in vista di una rifondazione ufficiale.

Ikuska

Dopo il 1975 l’’euskera’ ha un impulso notevole, dovuto alla nuova situazione politica. La spinta maggiore però è quella verso la formalizzazione di una lingua unitaria, il cui uso deve essere ufficializzato e pertanto previsto nella formazione scolastica. La serie Ikuska, che Antxon Eceiza progettò e iniziò nel 1977, dopo il rientro in Euskadi (Ángulo, y otros, 2009), segna un passo importante per la proposta di una regolarizzazione della lingua nazionale basca, oltre ad individuare, definire e in un certo modo formalizzare le costanti del mondo basco che formeranno una nuova estetica. Dopo Ama Lur è il secondo atto fondamentale per la cultura basca; la differenza sostanziale è quella che esiste tra il film e il documentario: se l’uno è concentrato sulla creazione di una estetica, l’altro non abbandona il suo ruolo didascalico, volendo definire uno status della questione per poter iniziare a progettare interventi.

Ikuska è una serie di 21 cortometraggi diretti da 15 registi differenti: fu, a ben vedere, un’opera collettiva a cui parteciparono gli intellettuali più impegnati del momento.

Ikuska 5, Elebitasuna[18] fu diretto da Koldo Izagirre, che non era un regista di professione, ma un letterato. È il capitolo della serie Ikuska che tratta del bilinguismo nei Paesi Baschi tra basco e spagnolo e lo fa con soluzioni visive elaborate, che fungono da contrappunto alla voce fuori campo di accompagnamento. Usa la pubblicità, l'insegnamento o i media per dimostrare la complicata situazione che sta attraversando la lingua basca e la certifica con alcune statistiche, risorsa molto efficace e ampiamente utilizzata in tutta la serie.

Di grande interesse è anche Ikuska 4, Euskal Telebista, diretto dall'attore Xabier Elorriaga. Attraverso interviste che conduce personalmente, apre un dibattito sulla necessità di una futura televisione pubblica basca in ‘euskera’, sulle caratteristiche che dovrebbe avere e sul processo necessario per realizzarla. Le interviste sono fatte sia a cittadini e a specialisti che parlano ‘euskera’ e altri che non lo parlano. Il cortometraggio si conclude con una scena pedagogica in cui l'autore spiega in modo pratico come si possa fare la televisione con un equipaggiamento tecnico piccolo e non troppo costoso. Il problema principale infatti è quello di possedere reparti produttivi indipendenti e che potessero avere costi sostenuti.

In Ikuska 6, Euskara galdutako Nafarroan[19], diretto da Juanba Berasategi, si affronta il tema dell'uso dell'‘euskera’ in Navarra e della situazione linguistica molto complicata. Si dimostra come la lingua si perde da una generazione all'altra, come i giovani non parlano più il basco o come la scuola non fornisce soluzioni al problema. Inoltre l’ attenzione si sposta sull'ambiente rurale, quello dei piccoli centri o del capoluogo, Pamplona - Iruña. Per finire, dà la parola al mondo degli ikastolas, fornendo una opzione di soluzione al problema.

Come già in Ama Lur, anche in tutta questa serie che, come si è detto, appare come un ampio dibattito sullo stato della questione, vi è presa in considerazione l’opposizione città/campagna, nuovo/vecchio, in una apparente dicotomia: il vecchio, che è la tradizione degli antenati, assume nuove forme e diviene nuova proposta, alternativa alla industrializzazione diffusa di un mondo basco in cerca di identità. La campagna non è né un locus amoenus né un luogo oscuro e lontano, ma è ‘la casa paterna’. L’azzurro e il verde, tra le campagne, i boschi e il mare, non sono i colori del mondo arcaico e puro di Ramuncho, ma si reinterpretano nel bianco, rosso e verde dell’ikurriña, sotto una unica lingua.

1.2.3. Il sostegno al cinema in euskera: questioni, progetti, effetti, evoluzione

Per quanto riguarda il cinema, gli anni ’80 furono anni fondamentali per l’uso dell’’euskera’ nei film. Dopo le esperienze e le discussioni degli anni ’70, il cinema basco si concretizza in una serie di produzioni di film di alta qualità in cui l’appena nato Gobierno Vasco intervenne in maniera solida con sovvenzioni. Come sottolinea Zigor Etxebeste (2015:223-224), il Gobierno Vasco non aveva ancora una politica chiara e definita sugli aiuti al cinema e Eceiza, che aveva seguito e impostato la questione, fu molto critico e non sempre concorde con il sistema di sovvenzione; tuttavia il cinema ne trasse un giovamento effettivo e consistente. Gran parte dei film di questa epoca riflette l’ambito politico ideologico, come La fuga de Segovia di Imanol Uribe (1981) e, dello stesso regista, La muerte de Mikel (1984), o Akelarre di Pedro Olea (1983), che, pur narrando una storia di processi alle streghe, non perde l’occasione di fare riferimenti più o meno espliciti alla condizione dei gruppi di resistenza e lotta armata. In Ander eta Yul di Ana Díez (1988), in cui il tema politico si intreccia con quello del commercio della droga a San Sebastián riproponendo un clima oppressivo e l’immagine di una città chiusa in un cerchio senza uscita, vi è un perfetto equilibrio dell’uso dell’’euskera’ a seconda del ruolo dei personaggi nella vicenda.

Dopo il 1985 il Gobierno Vasco decide di intervenire in modo più strutturato nelle produzioni: naturalmente alla base delle richieste c’è la reazione del pubblico, il gradimento del film. L’impulso a produrre film in ‘euskera’ ha un improvviso slancio dopo il grande successo di Aupa Etxebeste[20] nel 2005, un film di Telmo Esnal e Asier Altuna, due dei più rilevanti registi dell’ultima generazione. L’uso dell’’euskera’ nel cinema ha una ripresa dopo il decennio degli anni ’90: in questo periodo si registrò da una parte l’acquisizione della fama internazionale di registi baschi, dall’altra, a parte il caso di Vacas di Medem, si perse ogni riferimento locale basco in una gran parte della produzione di film. Enrique Urbizu, Daniel Calparsoro, Alex de La Iglesia, Juanma Bajo Ulloa scelgono di girare film destinati ad un pubblico internazionale, distaccandosi in tal modo dall’epoca precedente e dalla sua ideologia. Calparsoro tornerà a girare a Vitoria il suo Il silenzio della città bianca nel 2019, ma si tratta di un thriller tratto dal romanzo di Eva Saenz de Urturi, uno di quei romanzi che Javier Ocaña sul País definisce ‘literatura de aeropuerto’ (2019)[21], e poco ha a che fare con i canoni della rappresentazione della ‘vasquidad’.

Un film interessante per il lavoro sull’’euskera’ è Errementari (2018) diretto da Paul Urkijo e coprodotto da Alex de la Iglesia: il film, basato su un racconto popolare basco, Patxi Errementaria, recupera tutta la serie di elementi tradizionali per ricostruire una storia tra il fantasy e l’horror: i boschi oscuri e misteriosi, il diavolo, la notte, gli inferi. La tradizione popolare basca, come si vedrà anche in seguito, ha un fondamento solido nelle credenze magiche e soprannaturali, tanto che guaritori, pratiche di magia e esseri sovrumani e streghe accompagnano la vita rurale.

In una intervista a Gorka Lazcano[22], che ha curato tutta la traduzione in ‘euskera’ della sceneggiatura, si mette in rilievo l’operazione filologica sul testo, che corrisponde, dal punto di vista linguistico, al recupero della storia tradizionale: narrando infatti una storia del XIX secolo, e usando una lingua antica, dissimile anche dall’’euskera’ batua uniformato, si intensifica il senso del mistero e il tono arcaico del racconto, che attira lo spettatore in modo diverso rispetto a qualunque altro film di genere. Secondo Lazcano e Urkijo, allo spettatore comune, anche non basco, piace l’aura misteriosa della lingua del film. Il ricorso all’immaginario tradizionale e all’’euskera’ è anche presente nel film Handia[23], diretto nel 2017 da Aitor Arregi e Jon Garano, con la collaborazione, per la sceneggiatura, di José Maria Goenaga. Il giovane gigante, protagonista della storia, sa parlare solo ‘euskera’, il fratello ha imparato il castigliano ma in una scena, nella quale i due giovani sono oggetto di analisi da parte di un gruppo di medici e psicologi, entrambi vengono derisi a causa l’uno dell’accento improprio e campagnolo, l’altro per il fatto di non intendere nulla di castigliano (41’- 43’); l’’euskera’ in questo caso serve dunque a definire i protagonisti e nel contempo a circoscriverli e richiuderli all’interno di quella sorta di cerchio magico che sono i confini del caserio.

Il film è ambientato a Altzo, villaggio della provincia di Guipuzcoa, e girato nella campagna di Guipuzcoa e Bizcaya e nella città di Vitoria-Gasteiz. I luoghi ripropongono gli ambienti dell’immaginario tradizionale basco, e non mancano i riferimenti alla storia reale e alla percezione di essa da parte degli abitanti del pueblo, stupiti, incuriositi e attratti dalla singolarità della situazione, tanto da trasformarla in breve in leggenda.

Fotogrammi da https://www.handiafilm.com/eu/
 

L’immagine del giovane inoltre nel film è messa in relazione con una delle celebrazioni tradizionali più diffuse: la sfilata dei Giganti e Capezudos, durante la quale sfilano personaggi in cartapesta alti all’incirca quattro metri, raffiguranti personaggi nobili, famosi o contadini.

Fotogramma dal film amatoriale El pueblo de Vitoria, (autore ignoto), 1968. Archivio Filmoteca Vasca.
 

I riferimenti alla ‘vasquidad’ in questo caso, sia linguistici che di luoghi e situazioni, ma in una proposta di film proponibile in un mercato internazionale, come Errementari, continuano a far riflettere sulle questioni sorte al sorgere del cinema basco: film in ‘euskera’? Film di argomento Basco? Film prodotti in Euskadi?

Si può dire che, procedendo negli anni, la consapevolezza di un cinema basco sia sicuramente più alta e, dopo la pausa degli anni ’90, le produzioni basche siano state sempre più agevolate, compiendo, anche se forse parzialmente, il proposito iniziale.

Attualmente, le Film Commission offrono alle produzioni un aiuto consistente per reperimento e gestione fondi. Secondo i dati forniti direttamente dalla Vitoria.Gasteiz Film Office, generalmente le produzioni hanno 4 tipologie di finanziamenti, provenienti da enti diversi, di cui 3 locali e 1 statale[24]. Questi sono: l’Ayuntamiento, la Diputación, il Gobierno Vasco, la EZAE (Euskadiko Zine Aretoen Elkartea)[25]. Una volta approvato il progetto e ottenuta la prima sovvenzione, sono riconosciute, quasi automaticamente, le altre. A queste si aggiunge l’aiuto della Eitb, la televisione basca che ha un ruolo non indifferente nella gestione dei progetti. La funzione delle Film Commission, in particolare di quella di Vitoria-Gasteiz, è quella di aiutare la produzione nello sviluppo del progetto e le richieste di finanziamento, in settori separati per quanto riguarda i cortometraggi e i lungometraggi, e sostenere le sceneggiature selezionate. Inoltre, come accade per la maggior parte delle Film Commission, si occupa del reperimento location e degli accordi agevolati con i fornitori locali.

Per quanto riguarda le produzioni, nel periodo 2015-2022, una particolare attenzione è stata data ai cortometraggi, non solo perchè sono il prodotto più facile da realizzare, ma anche perché un grande impulso alla loro produzione e diffusione è dovuto alla nascita del progetto Kimuak. Il progetto nasce da una autentica necessità: sistematizzare e regolarizzare la filiera produttiva del cortometraggio dall’ideazione alla distribuzione, prevedendo anche il sostegno economico. Da tempo infatti giovani e promettenti registi praticavano l’arte del cortometraggio realizzando opere anche notevoli, ma che non ottenevano i giusti riconoscimenti. Su progetto di Amaia Rodríguez, allora ‘Directora de Creación y Difusión Cultural del Gobierno Vasco’, e José Luis Rebordinos, allora rappresentante della ‘Unidad de cine del Patronato Municipal de Cultura del Ayuntamiento de Donostia/San Sebastián’, nel 1997 si iniziò a progettare un sistema di aiuti che potesse sostenere lo sviluppo dei cortometraggi, ma, presto, ci si rese conto che le sovvenzioni a fondo perduto erano sufficienti solo per la produzione e non per la distribuzione (Ángulo y otros, 2006:172).

Il successo del progetto Kimuak fu tale che, come suppongono Fernández de Arroyabe, Zubiaur e Lazcano (2014:36), la produzione dei cortometraggi nel territorio basco può essere aumentata in virtù dell’attività e dell’esito del Kimuak. Nel ricco e dettagliato lavoro delle tre studiose è evidente il progressivo aumento dell’adesione al concorso nonchè del successo dei cataloghi realizzati e diffusi nell’ambito del progetto.

In realtà, considerando la qualità dei corti inseriti in catalogo, si nota un progresso, sia dal punto di vista tecnico che narrativo e, leggendo i titoli di coda, si può constatare come i reparti tecnici siano sempre più ricchi, segno di allontanamento da quella mentalità di artigianato e improvvisazione con pochi mezzi tipica dei cortometraggi più vecchi. A questo si aggiunge lo spazio dedicato ai cortometraggi nell’ambito dei festival, dedicati o no, a cui anche il progetto Kimuak ha guardato con interesse, soprattutto negli ultimi anni.

Il Kimuak quindi, nell’ambito delle attività di produzione e distribuzione, e con la redazione del catalogo ufficiale dei corti selezionati ogni anno, si conferma una delle azioni più efficaci per il sostegno e lo sviluppo del cinema basco, così come lo avevano intravisto i pionieri degli anni ’70.

2. Elementi narrativi della ‘vasquidad’

In questi paragrafi si tratterà di alcuni simboli fondamentali rappresentanti della ‘vasquidad’, e di come sono stati rielaborati nell’immagine cinematografica. Per esemplificare la questione, si è evitato di fare un mero elenco di dati, riscontrabili ovunque in ogni momento e non oggetto di questa ricerca, ma si sono tenuti in considerazione film che in un certo modo hanno segnato una svolta nella storia del cinema basco post ’68.

Si è visto come in Ama Lur vi è stata una scelta accurata, a mo’ di documentario, di immagini simboliche della ‘vasquidad’, tanto più simboliche in quanto destinate a creare un modello; ora è necessario soffermarsi su film che hanno modificato tale approccio, elaborando i simboli universali della ‘vasquidad’, talora gli stereotipi, in un linguaggio rispondente ad altre esigenze produttive e ad altre realtà politiche.

2.1. Il ‘caserio’, la campagna, il bosco: vecchi simboli in forme nuove

Considerando l’uso dell’immagine della ruralità basca e le sue mutazioni nel corso del corso dei flussi culturali, non si può non tenere in considerazione il fatto che alcuni romanzi e film sono passaggi fondamentali per delle inversioni di rotta rispetto alle consuetudini della forma e dello stile. Se, con Ama Lur, si ha la celebrazione della ufficialità della ‘vasquidad’, la ricerca di elementi costitutivi che devono rispondere all’istituzione di una formalità della narrazione, si è visto che il consolidarsi della lotta politica richiede altri temi e problemi, più o meno connessi al riferimento principale della ‘vasquidad’.

Se dunque l’immagine tradizionale del contesto rurale talora serve a restituire un’immagine arcaica di una società pulita che non conosce la degenerazione della modernità, talora una nostalgica visione dal carattere utopico posto in maniera antitetica alla visione distopica della città, e in ogni caso, in modo maggiore o minore, si carica di una valenza politica, l’uscita del film Vacas di Julio Medem segna una svolta estetica non indifferente. Il film fu prodotto dalla società produttrice Sogetel[26], che accettò il progetto presentandolo subito come un progetto innovativo, alludendo ad una sorta di rischio produttivo accettato in nome della validità della proposta. Del resto Medem, pur essendo alle prime armi come regista di lungometraggi, aveva già mostrato di poter rappresentare una novità nell’ambito dei cortometraggi[27], e di aver fatto una scelta che si allontana dal cinema politico e, di fatto, apre il decennio degli anni ’90.

Come chiaramente afferma Stone, nei primi anni ’90 il cinema basco ha una svolta internazionale, nel senso di una apertura a argomenti e stili che si svincolano dagli obblighi del racconto politico e da una ‘vasquidad’ più o meno stereotipata, ma di certo autori come Daniel Calparsoro, Juanma Bajo Ulloa e Julio Medem mantengono la relazione con la loro ‘vasquidad’ estrinsecandola in modo diverso e i loro film - in particolare Vacas (Medem, 1991), Salto al vacio (Calparsoro, 1995) e Alas de mariposa (Bajo Ulloa, 1991) - vengono recepiti “as auteurist works that illustrated new attitudes towards Basqueness” (Stone, 2015:113-114).

Il film di Medem nasce in un momento di crisi creativa dell’autore: come egli stesso afferma in una intervista a Jesús Ángulo e José Luis Rebordinos “yo me encontraba entonces en una situación muy inestable y insegura, y entré en crisis porque no sabia cómo avanzar”. (Ángulo, Rebordinos, 2005: 192) La svolta fu l’incontro con lo sceneggiatore Michel Gaztambide, il quale lo convinse a continuare senza esitazioni tanto che firmarono il contratto di sceneggiatura nel marzo del 1991, come evidente dal documento del deposito legale riprodotto di seguito.

Documento tratto dalla memoria di produzione di VACAS.
Per concessione dell’archivio della Filmoteca Vasca.
 

Un altro motivo ispiratore furono i quadri di Vicente Ameztoy in una mostra intitolata Karne y Klorofila[28]: “pensé que esa naturaleza frondosa en la que crece el sexo entre la muerte, rodeada de moscas, esos paisajes con la líbido en flor, llenos de figuras de paja, esa interpretación en clave de fascinación y broma sobre lo vasco, podía formar parte del nuevo universo de Manuel Irigibel, “el aizkolari cobarde” que se exilia de este mundo cuando su conciencia atraviesa el ojo de una vaca” (Ángulo-Rebordinos, 2005:192).

La sintesi del film, contenuta nella memoria di produzione conservata presso l’archivio della Filmoteca Vasca[29] ruota intorno ad una immagine più che tradizionale, ed è la stessa da cui il regista dichiara di aver ‘visto’ partire il film. Nell’intervista citata in precedenza, Medem racconta: “Se me ocurrió Vacas, saliendo del hacha lanzada por un aizkolari al bosque, y en ese bosque enseguida apareció otro aizkolari, y surgieron las dos familias rivales con sus dos ‘caseríos’separados por un bosque.” Il processo di creazione, per Medem, avviene sempre così: da una immagine improvvisa che genera la storia, dalla quale si genera il focus dal tono stesso dell’immagine. In questo caso, una immagine ‘particolare e bella’:

“VACAS” nace da una imagen rara y hermosa. Un hombre enfurecido y loco lanza su hacha contra el bosque donde su enemigo se entrena cortando troncos. La distancia es imposible de salvar, sin embargo, el hacha entra limpiamente en el bosque y, atravesando una avenida imaginaria, se clava en un tronco en medio de la espesura.

“VACAS” es la historia de dos hombres enfrentados. La historia de dos sangres. Los encontramos por primera vez en una trinchera en la 2a Guerra Carlista. Allí la sangre de uno salvará la vida del otro. La sangre será su salvación y también su estigma. Treinta años después (y por tanto en otra generación) la rivalidad del hacha los enfrentará. En ese tiempo tiene lugar la escena descrita al principio. A partir de ella se mezclarán las sangres y la hermana del vencido dará a luz un bastardo. El bastardo vivirá en sí el extraño privilegio del elegido y, como quien debe ser preservado, será obligado a cambiar de mundo. Pero al final regresará para cumplir su vida y recoger su destino. Luego será un hombre viejo que saca fotografías a las vacas.

“VACAS” es la historia de un hombre viejo que pinta extraños y terribles cuadros de vacas. En su juventud fue un campeón del hacha que salvó la vida en una trinchera embadurnándose con la sangre del otro. En sus cuadros hay quizás una enseñanza. Quizás los pinta para no morir.

“VACAS” es la historia de hombres que envejecen, hombres sobre los que la vida pasa escribiendo con cuchillo. Sabios y miserables. Supervivientes.

“VACAS” es también una historia de amor. De amor ilegitimo, voraz y casi imposible. Una historia del asombro y del espanto.

A lo largo de cien años, “VACAS” abarca dos guerras, tres generaciones. Entre locura y tierra. Entre ternura y crueldad. A través de los helechos movidos por el viento, acompañando la ruta minuciosa de los insectos.

“VACAS” es una historia del bosque, de la hierba, de la tierra, de los animales. Historia cíclica, historia de vida. La vida es una “digestión mágica” y descansa o vela o acecha en el tronco hueco de un árbol caído.

“VACAS” es una historia de vacas que, como las estrellas de Cátulo, [Catullo, Carmina, 7 n.d.r.]contemplan los amores furtivos de los hombres. El ojo de la vaca es un ojo sin juicio de esta ficción.

Elementi che appartengono tutti all’immagine consolidata della campagna, del caserio, del bosco, e in sostanza di quella ‘vasquidad’ già letteraria che costantemente conferisce il tono di vasco al film.

Per prima cosa il protagonista è un aizkolaris, cioè un taglialegna. Data l’abbondanza dei boschi e il lavoro ripetitivo e necessario del taglio di tronchi d’albero, l’attività si trasformò in uno sport, tra i più celebri e praticati tra quelli definiti ‘deportes rurales’ (sport rurali), tanto da essere definito ‘il re’ degli sport autoctoni baschi. Le immagini successive fanno riferimento alla aizkora che, dal 1903, si pratica come uno sport davanti ad un folto pubblico in città; ciò è dovuto alla costante immigrazione dalla campagna verso la città: molti infatti portarono le abitudini dei luoghi da cui provenivano, e conferirono loro una valenza rituale che potesse mantenere la tradizione, renderla più condivisa e comune, in modo da creare quel sentimento di ‘vasquidad’ che si è visto caratterizzare la nuova comunità in fieri.

In questo caso si tratta di frame dal film documentario El País Vasco[30] di Pio Caro Baroja raffigurante una aizkora a Vitoria.

El País Vasco, Pio Caro Baroja 1966, Archivio Filmoteca Vasca., n. 4221.
 

L’immagine successiva è un frame di uno dei filmati amatoriali realizzati nei primi anni ’80 da Jesus Estrada e donati alla Filmoteca Vasca dalla famiglia dell’autore. La gara di taglio della legna qui avviene nella plaza de toros di Vitoria, confermando il valore celebrativo rituale dell’avvenimento.

Fotogramma da Imágenes familiares di Jesus Estrada,
Archivio Filmoteca Vasca n. 7240.
 

Il fatto che Medem immagini l’inizio della storia proprio da questa figura, che negli anni precedenti il film era ormai divenuta di dominio pubblico e non più riservata a quel privato costumbrista tipico di ogni caserio, è significativo, soprattutto per il fatto che Medem, come si è detto, è uno dei primi registi della nuova generazione che si allontana dagli stereotipi della ‘vasquidad’, pur conservandone le immagini.

Il film è ambientato, come si legge ancora nella memoria del film, in

“un pequeño valle guipuzcoano en el que la proximidad de dos caseríos, apenas separados por una pendiente y un bosque, hace posible que, mediante la constante presencia de los otros, determinadas situaciones y actitudes de rivalidad se repitan en el tiempo. También el entorno es propicio para ello. El mismo valle cerrado en el que transcurre toda la película. Los mismos caseríos, como presencias emblemáticas que sobreviven a generaciones y generaciones. Los mismos animales, especialmente la presencia muda y pasiva de las vacas, que acompañan y observan a los hombres. […] todo contribuye a dibujar las características de un recipiente a presión, pequeño, cerrado y siempre a punto del estallido de la violencia y de la locura”.

L'ambientazione pertanto appare sempre quella solita dell’immaginario filmico basco, e soprattutto, nelle parole finali, evoca un elemento che sembra imprescindibile per la drammaturgia e la scrittura basca: il tragico.

I titoli di testa scorrono sul protagonista Manuel mentre taglia la legna, configurando subito la sua attività; i dettagli, i particolari e il primissimo piano sottolineano il pericolo e la fatica: tutto sembra convergere verso l’immagine di forza, come quella che spinge gli spettatori ad assistere a gare di sport rurali come, oltre all’aizkora, la sokatira (tiro alla corda) e l’ Harrijasotzaile (sollevamento pietre)[31]. La dimostrazione di forza e destrezza conferisce al capofamiglia il riconoscimento della sua importanza e, nella tradizione rurale, il valore delle proprietà del caserio dipendeva anche dal valore del proprietario.

Gara di sokatira (tiro alla corda). Fotogramma da Imágenes familiares di Jesus Estrada,
Archivio Filmoteca Vasca n. 7240
 

Gara di Harrijasotzailes (sollevamento pietra) . Fotogramma da Imágenes familiares di Jesus Estrada,
Archivio Filmoteca Vasca n. 6229.
 

Gara di Harrijasotzailes (sollevamento pietra). Fotogramma da Imágenes familiares di Jesus Estrada,
Archivio Filmoteca Vasca n. 6229.
 

La scena si chiude con il particolare della scheggia di legno che vola via, ralenti e fermo immagine, poi stacco su nero e il titolo del I capitolo: ‘El aizkolari cobarde’ (Il taglialegna codardo). L’introduzione al cap. II parte dalla stessa situazione ma non dallo stesso personaggio e dallo stesso periodo: dal 1875 al 1905 sono cambiate le generazioni, ma immutato è il contesto in cui le due famiglie degli Irigibel e dei Mendiluze vivono la loro perenne ostilità. Manuel, ormai vecchio, vive nel caserio con suo figlio Ignacio, la nuora Madalen e le loro tre bambine, ma non conserva il comportamento e le abitudini da padrone: passa il suo tempo a dipingere vacche, isolandosi dal resto del mondo. L’atteggiamento di Manuel è surreale nella stessa azione di scena, come se in effetti non fosse sopravvissuto alla guerra e, nel momento stesso in cui, trenta anni prima, si ricoprì del sangue del suo nemico Mendiluze per fingere di essere morto e salvarsi la vita, fosse passato in quello stadio intermedio tra la vita e la morte che lo porta ad una dimensione in cui può guardare da lontano la realtà comprendendone le linee segrete; il vero elemento rivelatore è l’occhio della vacca, attraverso il quale avviene un vero e proprio ‘passaggio’durante l’episodio bellico: lo sguardo ricambiato tra il soldato e l’animale, da questo momento in poi, assume il senso di una metamorfosi in cui restano attive entrambe le nature, in una connessione tra uomo e natura che permane al di là del passaggio di generazioni.

Nel capitolo II, l’introduzione è affidata ad una scena, come si diceva, che ripropone la stessa azione dell’inizio, ma a tagliare la legna è il figlio di Manuel, Ignacio. La continuità semantica dello sguardo della natura osservatrice soprannaturale - e che non giudica - è lo sguardo della vacca, a cui si aggiunge quello della nipote seienne di Manuel, Cristina. Nella scena riveste una funzione narrativa fondametale la dialettica tra campo, fuoricampo e controcampo, in cui gli oggetti opposti sono i due luoghi dei caserios appartenenti alle famiglie nemiche. Partendo dal caserio di Manuel, la piccola Cristina corre verso il bosco seguendo il cammino della vacca; il percorso della bambina è seguito dalla mdp con quattro panoramiche: tra la prima e la seconda e tra la seconda e la terza vi è uno stacco per il cambio del campo, ma tra la terza e la quarta vi è uno stacco ideale eseguito con inquadratura e carrellata in avanti verso un tronco d’albero, evidentemente spezzato ma di nuovo con giovani rami, e con una cavità nera su cui le mosche producono un suono che diviene sempre più profondo e oscuro. Il sonoro infatti, riproducendo il suono delle mosche, diviene un eco sempre più profondo e spaventoso. Ad esso si aggiunge il rumore del vento che da sempre, nel sonoro filmico, è associato al male, all’oscuro, al mistero. In realtà, come descritto nella sinossi del film[32], è “el mismo espacio negro, lleno de tiempo y locura, que él ve detrás de los ojos de las vacas”, e “esta línea o este trayecto oscuro, para Manuel está representado por un profundo y húmedo agujero negro que hay en el bosque, y en el que las moscas zumban produciendo eco. El mismo espacio negro, de tiempo, que él ve detrás de los ojos de las vacas.” L’inquadratura ha il suo riferimento inmediato con l’incipit di Un chien andalou di Luis Buñuel, principale fonte di ispirazione di Medem, dove l’occhio tagliato inaugura programmaticamente una nuova forma di visione/sguardo della realtà che, per dirla con Zunzunegui, “sorge grazie a una cinepresa che registra con identica e scrupolosa indifferenza il sogno tratto dalla realtà e la realtà tratta dal sogno, al punto che entrambi i territori si presentano definitivamente integrati.” E ancora: “ combina la ripetizione (in versione di ‘Eterno ritorno’) con l’esplorazione dei ‘mondi originari’ in cui, come nello spazio del mito (di questo si tratta), si sospende definitivamente la distinzione fra sogno, allucinazione diurna e realtà quotidiana.” (Zunzunegui, 2016: 74-76). Anche lo sguardo di Medem, come quello di Atxaga (cfr. la sceneggiatura di Bateko Urrea e l’introduzione), si trova a confrontarsi con il surrealismo e i modelli letterari delle avanguardie, rivisitando i luoghi del paesaggio reale e trasformandoli in ciò che, essendo inesprimibile, solo la macchina da presa può cogliere.

Non ultimo il simbolo del bosco e dell’albero, costante nella letteratura e nell’immaginario tradizionale basco, è da Medem rivisitato in una chiave surreale, che evoca il segreto delle radici e che rivela l’incognita della paura generata da una natura poco familiare. Tuttavia, considerato il complesso rapporto tra uomo e natura nella tradizione basca, e soprattutto quello legato alle leggende e ai personaggi magici del bosco, non è infrequente constatare situazioni narrative in cui la paura è la linea principale del narrato; la differenza sostanziale nella narrazione cinematografica di Medem è che lo sguardo è sempre una soggettiva dall’interno, che abbraccia tutta la realtà circostante per tradurla in termini interiori, in uno sviluppo sempre meno universale rispetto alla realtà.

La stessa cosa accade anche in uno dei film più recenti di Medem, El Arbol del Sangre, (2018) in cui l’albero, simbolo delle radici familiari tradizionali come in ogni casa di campagna, è l’elemento intorno al quale e a causa del quale emergono segreti e storie di una coppia e delle radici di entrambi, in una sorta di rivelazione che solo il contatto con la percezione delle origini può consentire.

Vacas di Medem, e in generale il suo cinema rappresenta, rispetto alle precedenti esperienze, una svolta significativa nel racconto della ‘vasquidad’.

2.2. Riti e magia nel ‘caserio’

Fondamentale per la memoria storica e audiovisiva è una istituzione come la Filmoteca Vasca nel ruolo che riveste non solo per la memoria e tutto ciò che concerne la funzione abituale degli archivi, ma soprattutto per la ricostruzione della identità: il riferimento ai tempi antichi, alla ruralità, è il tentativo di costruire e unificare una realtà in passato frammentata e spesso vissuta senza una piena consapevolezza della sua vera essenza. L’immagine ricostruita, come avviene solitamente, tende a riconoscere, raccogliere, sistematizzare ogni singolo elemento per risemantizzare il reale in una visione comune.

Le raccolte fatte dagli etnoantropologi costituiscono una interessante fonte di documentazione per la storia dell’immagine del País Vasco: a partire dalla lunga e intensa attività di José Miguel de Barandiaran, da quella di José Antonio Laburu Olascoaga e dai loro collaboratori e eredi, possediamo un amplissimo patrimonio di immagini da cui si può ricostruire quell’insieme di elementi legati alla ruralità.

Se infatti dovessimo tener conto dei numerosi documentari realizzati anche da stranieri[33], avremmo una immagine di una ruralità che acquisisce senso solo nei confronti della frenetica vita cittadina, motivo topico dall’antichità ad oggi, oppure utilizzata a scopo ideologico[34], oppure ancora mediata dalle scelte di regia.

Accanto alle immagini del paesaggio, più o meno letterario, a pascoli, boschi, pecore, vacche e caserios, la documentazione proveniente dalla ricerca etnologica ci offre immagini delle pratiche consuete in ambiente rurale relative a guarigioni e magia.

Si propone di seguito un esempio tratto dalla raccolta di padre Laburu[35] donata dagli eredi alla Filmoteca Vasca. Si tratta di filmati che documentano pratiche di guarigione effettuate da guaritrici o contadini dei caserios. La selezione dei frame tratti dai filmati è stata effettuata nel laboratorio della Filmoteca Vasca, che ha concesso la riproduzione degli stessi in questo lavoro.

Referencia 1750.1
Años 1930
Dirección José Antonio Laburu Olascoaga
País Vasco Magia: imágenes de sanaciones llevadas a cabo de campesinos y ancianas en sus caseríos. Curaciones a niños y animales
[36].

Le prime inquadrature del filmato sono di ambiente: questo sottolinea in modo particolare, e anche insistente, vista la durata delle inquadrature, piuttosto lunghe, l’ambiente e la struttura del caserio, collocato in aperta campagna, isolato, e con lunghe strade per giungervi.

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga. Per concessione della Filmoteca Vasca.

Nel primo filmato il guaritore, che è il baserritarra[37], ha in mano una boina (basco), detta in basco txapela, e la passa 3 volte a cerchio intorno all’avambraccio del giovane da curare.

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga. Per concessione della Filmoteca Vasca.

Dopo ogni cerchio fa il segno della croce. Poi la passa di nuovo per tre volte in senso verticale e orizzontale, a forma di croce. Dopo ogni volta fa di nuovo il segno della croce. La terza azione è passare l’ago da cucito attraverso il basco 1 volta e, successivamente, fare di nuovo il segno della croce. Sempre ripetuto 3 volte. In ultimo il braccio viene passato 3 volte con acqua portata in una ciotola da un bambino piccolo. Lo stesso rito viene effettuato per i buoi. 

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga.
Per concessione della Filmoteca Vasca.
 

Nel filmato successivo il vecchio contadino raccoglie erbe.

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga. Per concessione della Filmoteca Vasca.

Nella documentazione di Barandiaran, risalente agli anni ’20 (Barandiarán, 1921), è testimoniato l’uso, in varie occasioni, delle erbe con funzione magica:

Según creencias de Oyarzun, el que tiene verrugas y desea curarlas, ha de arrancar de la tierra varios juncos con las manos que deberá llevar cruzadas por detrás de su cuerpo de modo que no pueda ver las plantas en el momento de arrancarlas. Después ha de pasar los juncos encima de las verrugas trazando cruces y colocarlos por fin en la chimenea del hogar para que se sequen pronto. Según van secándose dichas hierbas, van reduciéndose las verrugas, que luego desaparecen (Barandiarán, 191421:26)[38].

In altri luoghi sono usati, invece che arbusti, canne, ramoscelli o erbe, le mele:

Para curar verrugas utilizan también en Cortézubi manzanas crudas. Parten una manzana en cuatro trozos y frotan con ellos las verrugas. Después colocan aquéllos en una encrucijada de caminos. Si algún viandante los recoge y los come, las verrugas pasarán a sus manos (Barandiarán, 191421:27)[39].

Nel film El silencio de la ciudad blanca (2019) di Calparsoro, tratto dal best seller della scrittrice alavense Eva García Sáenz de Urturi, è presente la scena di un rito di guarigione. Il giovane ispettore Unai López de Ayala si reca in visita presso il caserio del nonno apicoltore – interpretato da Ramón Barea – il quale, dopo che il giovane `punto da un’ape, prende una mela dall’albero, la taglia in due, e la applica sulla puntura. Dopo di ciò, la lega con un fuscello ricomponendone le due metà e la seppellisce nel terreno sotto l’albero, dicendo: “Presto sarai guarito”.

In questo caso l’inserimento nel testo del thriller e nella relativa sceneggiatura di una pratica di guarigione rituale è funzionale ad un racconto che deve mettere in mostra quanto più possibile i legami con il territorio e le sue tradizioni: si è già parlato inoltre del criterio di produzione che tenga conto dei ‘prodotti’ locali, che possano essere romanzi a larga diffusione o film, e delle agevolazioni che possa avere un film del genere per il lancio di una città, allorquando alcune delle scene principali siano ambientate in momenti o in luoghi chiave della città quali le celebrazioni per la Virgen Blanca, la discesa del Celedón, la casa del Cordón.

Altra scena di guarigione si trova in un filmato successivo, appartenente alla stessa serie di quello precedente.

Nella scena una vecchia cura il bambino con le braci e il fumo del braciere, generato dall’acqua versata in esso, recitando presumibilmente, visto che il film non ha il sonoro, una formula. Successivamente mette una padella con del sale sul braciere e mette il contenuto caldo in un panno, ben avvolto, sul ginocchio del bambino.

Lo stesso rito viene realizzato usando anche un soffietto da camino. 

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga. Per concessione della Filmoteca Vasca.

In un rito simile , la vecchia fa il segno della croce a ogni gesto e tiene in mano un piatto di sale da cui ogni volta prende un pizzico e, facendo il segno della croce, lo passa sulla fronte del bambino, sulla gola, su cui è poggiato anche il soffietto, e poi lo getta nel braciere ardente.

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga. Per concessione della Filmoteca Vasca.

Il rito del sale e dei poteri guaritori di esso è testimoniato dalle ricerche di Barandiaran, in un rito molto simile a quello ripreso da padre Laburu:

En Bedia y en Cortézubi utilizan los granos de sal para curar verrugas: éstas deben ser frotadas con aquéllos. Los granos empleados en la fricción serán lanzados al fuego; procurando el paciente alejarse lo suficiente para no oír la crepitación consiguiente. Así se desharán las verrugas como se habrán deshecho sus imágenes, es decir, los granos de sal[40].

Altre immagini riportano la vecchia guaritrice in atto di compiere sulla ragazza un rito similare con sale, che poi è gettato su un braciere. 

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga. Per concessione della Filmoteca Vasca.

In questo caso è il crepitio del sale a dare l’avviso della soluzione della malattia.

Nella clip successiva tre vecchie intorno ad un cespuglio si passano tra le mani un bimbo piccolo facendo attenzione a farlo passare sopra il cespuglio medesimo mentre recitano una formula rituale.

Referencia 1750.1 Años 1930 Dirección José Antonio Laburu Olascoaga. Per concessione della Filmoteca Vasca.

Probabilmente si tratta del rito relativo alla cura della Arrosa, o herpes, riportato da Barandiaran, la cui attestazione è riferita alle ricerche di Ignacio Maria Barriola, di cui cita, da La Medicina popular nel País Vasco:

En Goizueta recogimos esta variante: al filo del mediodía se colocarán tres personas con el niño enfermo, alrededor de un rosal, y empezando con la primera campanada, mientras suenan las doce, se pasarán el niño por tres veces de uno a otro, recitando: ARROSA ARROSA-KIN, ARROSA ARROSANGANA, AMA SANTA ROSAK ERAMAN DEZALA BEREGANA “la rosa con las rosas, la rosa a las rosas, la madre Santa Rosa la lleve consigo.” Se termina rezando el Credo, acto de fe imprescindible de tantas prácticas similares en las cuales, ciertamente, es la fe la que juega el papel principal. (Barandiarán, 1914[21]:82)[41]

Sempre più frequentemente si trovano nei film di produzione basca degli ultimi anni riferimenti a riti e credenze di questo genere: nei tre film di Fernando González Molina tratti dai romanzi thriller della trilogia del Baztan, di Dolores Redondo, Il Guardiano Invisibile (2017), Inciso nelle ossa (2019) e Offerta alla tormenta (2020) il filo conduttore è quello di riti e pratiche magiche, presenza di creature soprannaturali, boschi oscuri da cui esce un basajaun[42] salvatore, stregoneria e misteri dell’aldilà, con il riferimento ad un libro unico, quasi codice magico, che altri non è se non una antica edizione della raccolta di Barandiaran. L’inserimento di riferimenti a raccolte di materiali etnografici, la citazione di volumi chiave per gli studi di etnologia e antropologia basca altro non fanno che confermare una volontà di creare, in un processo mitopoietico,una mitologia basca nelle nuove narrazioni.

3. Conclusioni

In conclusione, lo studio del cinema basco evidenzia un percorso evolutivo che, pur partendo da radici politiche e ideologiche, ha saputo affermare una forte identità estetica. La 'vasquidad' è diventata un elemento centrale non solo nel linguaggio e nei temi trattati, ma anche nelle tecniche narrative e stilistiche adottate dai registi baschi. Questo cinema non è una manifestazione del cinema spagnolo, ma una espressione autonoma e distintiva, capace di dialogare con il pubblico internazionale attraverso la distribuzione globale delle piattaforme streaming.

La capacità del cinema basco di attingere alle proprie tradizioni e di reinterpretarle in chiave moderna ha contribuito a costruire una narrazione locale ricca e complessa, che va oltre gli stereotipi. La produzione di film come Errementari e Irati di Paul Urkijo Alijo, o la serie HBO Patria, dimostra come la combinazione di accurate ricostruzioni storiche e mitologiche con un linguaggio cinematografico raffinato possa veicolare efficacemente l'identità basca a livello globale. Questi esempi, insieme alla trilogia del Baztán e ad altre opere ispirate alle leggende locali, sottolineano l'importanza di una ricerca filologica e linguistica che arricchisce il genere filmico e ne amplia le possibilità espressive.

In definitiva, il cinema basco rappresenta un progetto culturale e identitario che continua a evolversi, mantenendo un delicato equilibrio tra etica ed estetica. La sua capacità di fondere tradizione e innovazione rende il cinema basco non solo un fenomeno culturale rilevante all'interno dei Paesi Baschi, ma anche un contributo significativo al panorama cinematografico internazionale. Il riconoscimento di un'estetica basca, come discusso da Santos Zunzunegui e altri studiosi, conferma che il cinema basco ha saputo ritagliarsi uno spazio unico, definendo una tradizione cinematografica che è allo stesso tempo locale e universale.

4. Riferimenti bibliografici

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https://liburutegibiltegi.bizkaia.eus/handle/20.500.11938/82335


[1] Rilasciata all’autore di questo testo il 13/03/2018.

[2] Ispirato ai fatti del 1609, durante la caccia alle streghe nel País Vasco e Navarra. Lo stesso argomento in Akelarre (1984) di Pedro Olea.

[3] L’opera di Mogel è fondamentale per la questione della lingua basca nonché della sua dignità letteraria. Il testo, di cui lo stesso autore fornì descrizione come ‘i dialoghi tra un basco solitario e rustico e un barbiere cittadino chiamato Maisu Juan’, è la prima rappresentazione letteraria di una cultura ‘rustica’ tipica del contesto basco, in un’ottica che può anche essere considerata costumbrista. Per la storia del manoscritto, si veda Luis Michelena, El texto de Peru Abarca, ASJU 12-13, 1978-79, pp. 201 224.

[4] Egin, 11/06/1981.

[5] L’Estatuto del Pais Vasco entrò in vigore nel dicembre del 1979, e fu seguito dalle prime elezioni autonome nel 1980. Nelle elezioni di quell’anno il PNV e gli altri partiti nazionalisti ottennero il 65% dei voti, con il 38% al PNV; come osservano De la Granja-de Pablo-Rubio Pobes [2020: 264], accadde la stessa cosa che si verificò nel 1933: il PNV rappresentò la marcia verso l’autonomia del País Vasco.

[6] Egin iniziò le sue pubblicazioni nel 1977 e immediatamente mostrò il suo indirizzo di sinistra e abertzale. Il suo primo direttore Mariano Ferrer, un ex gesuita che appoggiò la causa indipendentista dopo il rientro a Donostia, fu costretto a dimettersi dopo aver pubblicato, nel novembre 1977, un articolo in cui condannava un attentato di ETA. Le pubblicazioni durarono fino al 1998, quando il periodico fu chiuso per la decisione del giudice Baltazar Garzón. Nonostante la decisione di Garzón fosse, l’anno dopo, rigettata, il periodico non riprese le pubblicazioni. Per Egin vd. https://liburutegibiltegi.bizkaia.eus/handle/20.500.11938/82335 e, per Mariano Ferrer, Aizpeolea Luis R., Mariano Ferrer, el director de ‘Egin’ cesado por un editorial contra ETA, https://elpais.com/noticias/egin/ [data di consultazione 19 giugno 2023].

[7] ‘Negli articoli che abbiamo pubblicato ultimamente è stata analizzata la situazione attuale della cultura basca da diversi prospettive. La situazione della nostra cultura è piuttosto povera, almeno non così ottimista come vorremmo. In quello che concerne il canto, le arti plastiche e la letteratura, si è reso evidente che abbiamo ancora molto da fare per raggiungere un livello alto. Puntiamo alto a Novembre, credendo di ottenere questo e altro, ma continueremo a vedere in quale situazione siamo, che cosa volta per volta troviamo, per lanciarci senza ulteriori indugi a livelli più alti. Altri articoli sulle scuole di euskera, la musica, la pedagogia e altro.’ (la traduzione è di chi scrive). https://liburutegibiltegi.bizkaia.eus/handle/20.500.11938/82335, [data di consultazione 20 luglio 2019].

[8]Festival, 14 settembre 1978

[10] Antxon Eceiza, in Festival, op. cit.‘La situazione del nostro popolo e della nostra cultura basca rende evidente la necessità del cinema basco, che servirà a riconquistare la nostra cultura e i più alti campi di sovranità, e un'organizzazione umana e politica sempre più abituata ai nostri modi di essere, in modo da raggiungere il nostro diritto storico come popolo.’

[11] Nel cap. IV, par. 1 si è illustrata in modo specifico l’edizione del ’77 del Zinemaldia, nonchè il significato della retrospettiva su Pasolini.

[12] Sojo Gil, Kepa, The evolution of euskera in the Basque Cinema, inedito, per cortesia dell’autore.

[13] Carta de la Distribuidora cinematográfica Ama Lur a los socios, 30 noviembre 1966. Archivio Filmoteca Vasca.

[14] La voz de España, 10 luglio 1969.

[15] Egin, 26 gennaio 1978.

[16] Antigua copla. Più che un genere letterario, è un modo speciale di comporre strofe e nei testi popolari ha raggiunto una forma altamente stilizzata. Jon Kortazar fa notare che il vecchio distico è stato definito come la manifestazione dell'irrazionalità poetica.
Il vecchio distico è una strofa di quattro versi, il cui contenuto è diviso in due parti: una, simbolica e di riferimento, e un'altra, costituita da una procedura non logica o ragionevole per unire queste due parti del poema. Questa connessione a volte è puro suono ea volte pura intuizione.
Per distinguerlo dai ‘versi nuovi’, è chiamato vecchio distico. I due cantano alternativamente e la maggior parte delle volte si scambiano lazzi. La tecnica può anche essere la stessa: all'inizio l’argomento che sarà poi ripreso alla fine.

[17] Il Bertsolarismo è una forma di poesia basata sull’improvvisazione orale, in metrica e in rima. Al bertsolari è affidato un argomento su cui improvviserà versi, in competizione con altri bertsolaris.

[18] Bilinguismo.

[19] L’euskera si perde in Navarra.

[20] Il film racconta la vicenda degli Etxebeste che, nel giorno della partenza per le vacanze tanto attese, si rendono conto di essere rimasti al verde. Per salvare le apparenze con il vicinato decidono di rimanere nascosti in casa, ma la convivenza forzata fa riemergere vecchi rancori e bugie. Nonostante i rimproveri e le tensioni, riusciranno a risolvere problemi e incomprensioni. Il film ha lo stesso soggetto dell’italiano Mari del Sud, (2001) di Marcello Cesena, prodotto da Medusa Film e Cattleya, interpretato da Victoria Abril e Diego Abatantuono. Sceneggiatura e soggetto originale sono però di Thomas Bahmann, che diresse il film di produzione tedesca nel 2001.

[21] Data di consultazione 09/12/2023.

[23] Sinossi: Dopo aver combattuto durante la guerra carlista all'EHE, Martín torna nella sua casa di Gipuzkoa, dove, sorpreso, scopre che suo fratello Joaquín è molto più grande del solito. Sperando che il mondo intero voglia pagare per vedere l'uomo più grande della Terra, i due fratelli intraprendono un lungo viaggio attraverso l'Europa. Lungo la strada, ambizione, denaro e fama cambieranno per sempre il destino della famiglia. Una storia basata su eventi reali. https://www.handiafilm.com/eu/ [trad. di chi scrive].

[24] Dati provenienti dalla Vitoria Gasteiz Film Office.

[25] Asociación de Salas de Cine de Euskadi.

[26] La casa di produzione fu rinominata Sogecine nel 1997, e attualmente Sogecine&Sogepaq.

[27] Medem inizia a girare cortometraggi in super8 nel 1976 : El ciego fu il suo primo lavoro. Iniziò a girare in 35mm con Patas en la cabeza, ma fu con Las seis en punta, nel 1987, che, con il suo stile molto libero e surreale, da il via ad una forma narrativa e stilistica differente da tutti i suoi contemporanei.

[28] Il titolo che nel 1990 Ameztoy dette alla sua prima grande mostra fu poi il suo manifesto estetico e politico. La mostra si tenne nell’Arteleku, un centro di arti applicate fondato nel 1987 a San Sebastián e che fu molto attivo, fino alla sua chiusura definitiva nel 2014, nel campo della sperimentazione artistica, della ricerca e della formazione.

[29] E pubblicata anche in Ángulo, Jesús – Rebordinos, op. cit. pp. 125-126.

[30] El País Vasco, Pio Caro Baroja, 1966. Sceneggiatura: Julio Caro Baroja, Fotografia: Joaquin Hualde, Montaggio: José Antonio Rojo, Luis Alvarez, Produzione X Film, dur. :20’ . Pio Caro Baroja (1928-2015) fu un regista che si occupò, insieme al fratello Julio, noto antropologo e saggista, di documentari sulle tradizioni del País Vasco. Collaborò a lungo per i NO-DO e la televisione spagnola.

[31] Legato anch’esso alle sfide rurali dei vecchi baserritarrak, il sollevamento della pietra non ha un’origine definita nel tempo, ma all’inizio del XX secolo, questo tipo di sfida fu portata in piazza e il pubblico pretese un regolamento nei pesi e nella forma delle pietre utilizzate dagli atleti. Il pezzo di roccia di forma irregolare fino ad allora utilizzato veniva sgrossato dagli scalpellini, adottando classicamente quattro forme geometriche: il cilindro, il cubo, la sfera e il rettangolo. La forma cilindrica veniva utilizzata per i pesi più piccoli: 8,9 e 10 arrobas, che corrispondono a 100, 112,5 e 125 chili; la pietra cubica e rettangolare varia tra 10 e 17 arrobas, corrispondenti rispettivamente a 125 chili e 212,5 chili, con pesi intermedi più frequenti di 137,5, 150, 163,5, 175, 187,5 e 200 chili. La pietra sferica, comunemente chiamata palla, è solitamente di 9 e 10 arrobas. Il tiro alla corda,sport diffuso in tutto il mondo, secondo l’abitudine tradizionale del Paese, si svolgeva nei cortili o sul pavimento di pietra delle piazze. 

[32] Vd. memoria, op. cit.

[33] Notissimi The Land of the Basques, 1955, Orson Welles e Basker, Dan Grenholm e Lennart Olson, 1963

[34] Si veda per esempio Im lande der Basken, (Herbert Brieger, 1944) in cui il popolo vasco è narrato sotto l’egida del popolo non contaminato, modello etico da inseguire per conservare, cosi come accade per il País Vasco, la purezza della razza. Fu facile in effetti accostare il nazionalismo vasco e le teorie di Arana a quelle sulla purezza germanica, cosí come fece Tacito quando si serví a sua volta del noto modello germanico per l’auspicio di nuova vita per i Romani.

[35] Padre José Antonio de Laburu Olascoaga (Bilbao 1887- Roma 1972) fu un biologo, antropologo, psicologo appartenente alla Compagnia di Gesù dal 1906. A partire dal 1933 fu professore emerito alla Pontificia Università Gregoriana a Roma, ruolo che mantenne quasi fino alla sua morte nel 1972. Tenne corsi e conferenze in molte università del Sudamerica e continuò sempre intensamente la sua attività di studioso. É una delle fonti più importanti per l’etnologia basca, dopo Barandiaran.

[36] Magia nei Paesi Baschi: immagini di guarigioni effettuate su contadini e donne anziane nei loro caserios. Cure per bambini e animali.

[37] Abitante del caserío.

[38] Secondo le credenze di Oyarzun, chi ha le verruche e vuole curarle, deve estrarre dal terreno diversi arbusti con le mani, che deve portare incrociate dietro il corpo in modo da non poter vedere le piante al momento dell'estrazione. Poi deve passare i ramoscelli sopra le verruche tracciando delle croci ed infine metterle nel fuoco del focolare in modo che si asciughino velocemente. Quando queste erbe si asciugano, le verruche si riducono, e poi scompaiono.

[39] Per curare le verruche a Cortézubi si utilizzano anche mele crude. Tagliano una mela in quattro pezzi e ci strofinano le verruche. Quindi li posizionano a un bivio. Se qualche passante li raccoglie e li mangia, le verruche si metteranno sulle loro mani.

[40] A Bedia e Cortézubi si usano i grani di sale per curare le verruche: questi devono essere strofinati con queste. I grani usati saranno gettati nel fuoco; il paziente cerca di allontanarsi abbastanza da non sentire il crepitio che ne consegue. Così le verruche saranno disfatte come saranno state disfatte le loro immagini, cioè i granelli di sale.

[41] “A Goizueta abbiamo raccolto questa variante: allo scoccare del mezzogiorno, tre persone staranno con il bambino malato, attorno a un cespuglio di rose, e, cominciando dalla prima campana, mentre suona la mezzanotte, si passeranno il bambino tre volte dall'una all’altra, recitando: ARROSA ARROSA-KIN, ARROSA ARROSANGANA, AMA SANTA ROSAK ERAMAN DEZALA BEREGANA “la rosa con le rose, la rosa alle rose, la mamma Santa Rosa la porti con sé”. Si conclude recitando il Credo, atto di fede essenziale in tante pratiche simili in cui, certamente, è la fede a svolgere il ruolo principale”.

[42] Vd. par. seguente.